LETTERA A MONS. GIUSEPPE MANI
 

Caro mons. Mani,

come cristiano in cammino, sempre bisognoso di conversione e perdono, dopo aver sentito a più riprese le sue dichiarazioni, nelle omelie e tramite la stampa, sui nostri soldati impegnati in Iraq, e aver ascoltato in diretta la sua ultima omelia ai funerali di Alessandro Pibiri, il compianto nostro giovane soldato ucciso da un attentato, non lontano da Nassiriya, mentre faceva da scorta ad un convoglio militare inglese, con commozione profonda e nell’abbraccio solidale al dolore dei famigliari, mi rivolgo a Lei, come pastore di una comunità di credenti e Le chiedo una parola chiara e in sintonia con il Vangelo della Pace.

 Conosco la Sua sensibilità nei confronti dei soldati. Non ho mai pensato che i militari in quanto persone non possano essere discepoli del Maestro. La professione di fede del centurione romano riportata dal vangelo di Marco (15,39) ci dice che lo Spirito soffia “dove vuole”, spesso fuori dai nostri recinti, e nessuno può imprigionarlo. Il vangelo non racconta il seguito della vicenda del centurione. Io amo pensare che da quel momento rivelativo, nella contemplazione di Gesù crocifisso, egli abbia cambiato vita, abbia rifiutato la violenza…Nei primi tempi del cristianesimo molti soldati, convertitisi alla “via” di Cristo, obiettarono al servizio militare.

Credo che la pace non si possa portare con le armi. È illusorio fondare la pace sulla vittoria. Nelle guerre contemporanee non ci sono più vincitori e vinti: tutti sono sconfitti. I fatti dolorosi di Nassirija, le stragi di bimbi in Afghanistan e quelle quotidiane in Iraq, le persone innocenti che continuano a morire tutti i giorni, nonostante si sia dichiarata la guerra finita, me lo confermano.

 Il cammino della nonviolenza, tracciato per noi da Gesù e percorso da cristiani e non cristiani, da donne e uomini di buona volontà appartenenti a diverse religioni e culture, va assunto radicalmente. In modo speciale da coloro che rivestono un ruolo di servizio nella comunità cristiana come pastori, ministri della parola e dell’eucaristia. Penso sinceramente che sia contraddittorio unire croce e spada, portare il saio e le stellette…Non metto in discussione la necessità del servizio spirituale ai fratelli soldati che, secondo il Concilio Ecumenico Vaticano II, talvolta possono “concorrere a rendere stabile la pace, se rettamente adempiono il loro dovere” (Gaudium et Spes, n. 79). La Pacem in terris del beato papa Giovanni affermava che la guerra è una follia. Ho letto ancora una volta attentamente tutto il capitolo V della Costituzione pastorale su “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. La citazione da Lei riportata nella risposta ad una mia precedente lettera, e ripresa più volte nelle sue omelie, è l’ultimo capoverso del n. 79. Tutto il brano, ad una lettura attenta, esprime il ripudio totale della guerra; afferma che oggi “la guerra (e, naturalmente il terrorismo “considerato un nuovo metodo di guerra”) continua le sue devastazioni. Anzi, dato che nella guerra si fa uso di armi scientifiche di ogni genere, la sua crudeltà minaccia di condurre i contendenti ad una barbarie di gran lunga superiore a quella dei tempi passati”. Il Concilio riconosce pure che “la guerra non è scomparsa dall’orizzonte dell’uomo”, perciò “fintanto che non ci sarà un’autorità internazionale competente munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si può negare ai governi il diritto di legittima difesa”. Non possiamo estrapolare l’ultimo capoverso senza leggere i precedenti. Il testo continua: “Ma altra cosa è servirsi delle armi per la giusta difesa dei popoli altra cosa è voler imporre il proprio dominio su altre nazioni”. Solo dopo aver percorso tutte le strade possibili, in ultima istanza, dunque, “coloro, che al servizio della patria, si dedicano alla vita militare si considerino come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli…”

Ho sottolineato alcune parole che mi sembrano illuminanti nel contesto attuale. È sotto gli occhi di tutti che le ultime guerre (Afghanistan, Cecenia, Iraq) sono guerre “preventive” di dominio e di conquista, non di legittima difesa. I nostri soldati sono stati inviati in un paese in guerra come alleati di una coalizione per controllare un territorio in tempo di occupazione. Per non parlare delle guerre dimenticate dell’Africa Centrale dove ci contano più di tre milioni di vittime di cui nessuno fa parola. Davvero è crudele che nel momento del dolore, in cui si dovrebbe riflettere sulla scelleratezza della guerra, si usino ipocritamente le dichiarazioni “missione di pace”, “soldati di pace”. Essere vicini alle vittime e alle loro famiglie non significa bendarsi gli occhi. Trasformare, poi, le vittime in “eroi” può solo parzialmente consolare le famiglie e suscitare un forte sentimento popolare. Di fatto, diventa un’operazione ideologica di propaganda per giustificare una scelta sbagliata. La situazione attuale non è come quella del Libano, dove i nostri soldati hanno operato inviati dall’ONU! Con il nuovo “modello di difesa”, vorrà concordare che l’esercito italiano diventa un esercito professionale, il militare un mestiere da svolgere per guadagnarsi un reddito. Come anche da Lei dichiarato più volte, molti militari provengono dal Sud dell’Italia e vanno in missione perché così possono arrotondare il magro stipendio, farsi la casa o sostenere i propri anziani. Se poi noi occidentali facciamo dei caduti in guerra dei martiri e degli eroi, come possiamo condannare gli altri (palestinesi, ceceni, irakeni) che chiamano martiri i kamikaze?

Non credo si possa tornare indietro sulla strada tracciata dal Concilio, semmai dobbiamo approfondire le indicazioni date per portare avanti una riflessione teologica ed etica che sempre più si conformi al programma di Gesù esplicitato nel “Discorso della montagna”. Con preoccupazione vedo nelle prese di posizione di parte della Chiesa italiana una mancanza di chiarezza e di coraggio profetici del rifiuto della guerra come mezzo atto a risolvere i problemi internazionali. Leggere i testi conciliari e approfondirli dovrebbe essere impegno costante delle comunità cristiane. A 40 anni dalla Pacem in terris e quasi altrettanti dalla fine del Concilio Ecumenico Vaticano II, ho l’impressione che su questa problematica ci sia una stasi, se non anche un ritorno indietro. “Bisogna disarmare le menti e le culture”, afferma un grande pensatore ecumenico contemporaneo R. Pannikar. Credo che i cristiani mai si possano appiattire su posizioni escludenti il dialogo. Solo nel dialogo possiamo trovare riconciliazione e pace.

È improbabile che si possa abbandonare tout-court il modello militare, anche se questo dovrebbe essere una prospettiva per il futuro. Tuttavia, non mi sembra compito del vescovo esaltare i soldati “armati di tutto punto” che Lei chiama i “veri operatori di pace”. Ci sono esperienze di impegno per la pace e per la risoluzione non violenta dei conflitti che andrebbero incoraggiate, come la costituzione dei Corpi Civili di pace e della  Difesa Popolare Nonviolenta. Il popolo cristiano dovrebbe essere condotto sempre più sulla via indicata da Gesù. La maggior parte dei cristiani, in particolare quei giovani ai quali Lei tanto tiene e si rivolge, un anno fa hanno ripudiato la guerra riempiendo le piazze e le strade anche nella nostra città al pari di tutte le grandi città del mondo.

I militari italiani in Iraq, pur non avendo partecipato alla guerra di invasione voluta dagli USA e dall’Inghilterra, una guerra imperialista, contro la quale avevano manifestato decine di milioni di persone in tutto il mondo, sono stati mandati a sostenere l’occupazione militare e il controllo del territorio. Più del 90% del finanziamento pubblico a questa missione militare, chiamata ipocritamente missione di pace, è servito e serve a mantenere i mezzi, le strutture, le azioni militari, non come vogliono farci credere ad accudire ai bisogni fondamentali della popolazione irachena. C’è un passaggio della sua omelia durante i funerali di Alessandro che mi sento di condividere: “La guerra la vogliono i potenti e i soldati spesso non sono che delle vittime innocenti”. E tuttavia, si continuano a benedire gli strumenti della guerra, armi ed eserciti, a dare supporto religioso-ideologico a questi potenti.

Caro monsignor Mani, inoltre, l’articolo 11 della Costituzione italiana, da Lei citato per giustificare l’invio dei militari fuori dai confini dell’Italia, ripudia la guerra sia come strumento di offesa sia come “strumento atto a dirimere le controversie internazionali”: I padri costituenti, tra i quali molti cattolici, avevano capito qualcosa che è insito nel messaggio evangelico della nonviolenza.

Anche la lotta al terrorismo, e lo sappiamo bene dai risultati di questi anni, non si può condurre con le guerre ai popoli e alle nazioni. Giovanni Paolo II ha condannato chiaramente e a più riprese sia il terrorismo che la logica della guerra come risposta ad esso.

La frase del suo stemma episcopale è: Surrexit Dominus vere! La nostra fede sarebbe vana se non credessimo nella risurrezione. Cristo è la stella del mattino. Egli ci guidi nel cammino della riconciliazione e della pace, a partire da questi nostri giorni.

Festa della SS Trinità , 11 giugno  2005

Pierpaolo Loi

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